La paralitica sanata - Cammimo per incontrare Dio

I Cercatori di Dio
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Commento Mc 1, 29-31  
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Lavanda
E subito, usciti dalla sinagoga, andarono nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva.


Un passo del Vangelo di oggi – 16 gennaio – ci insegna una cosa fondamentale: la nostra vita appartiene a Dio (cfr. Mc 1,29-31).
È vero, noi non siamo indipendenti. Ad esempio una persona sposata (ma anche convivente) deve rendere conto delle sue azioni a quella che gli sta accanto, se poi ci sono dei figli, tante scelte dipendono dalle loro esigenze. Classica è la rinuncia delle ferie al mare in agosto, perché il pediatra informa che il sole fa male al bebè; ho sentito molti lamentarsi per questo.
Ebbene, la nostra vita dipende da altri e, qualche volta, appartiene ad altri. Tutte le persone coscienziose riconoscono questa realtà, ma pochi – se non pochissimi – sono disposti a riconoscere l’appartenenza assoluta a Dio.
Questo passo di Vangelo, invece, ci dice che apparteniamo a Lui, soprattutto quando interviene per salvarci o per farci star meglio.
La suocera di Pietro era a letto con la febbre – piccola cosa –, anche allora si guariva dalla febbre (quella “normale”) con un po’ di riposo ma quel giorno avevano un ospite speciale in casa e subito parlano a Gesù di lei (forse, per giustificarsi per il mal servizio) e lui, cosa ha fatto? Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva.
In qualche maniera, ha ridato la “vita” alla suocera, e lei subito si è messa al loro servizio.
L’insegnamento che ricaviamo da questo fatto è significativo: Gesù, spesso, interviene nella nostra vita e ci dà occasione per metterci al suo servizio.
Penso a tutte le volte che mi ha salvato, almeno cinque:
1. a sei anni, sono caduto nella stalla e le vacche non mi hanno schiacciato;
2. l’anno dopo sono caduto dal pergolato, da un’altezza di sei metri sopra un selciato di pietre, mentre cercavo di mangiare i pampini della vigna e non mi sono fatto nulla;
3. intorno ai quindici anni sono caduto da una motoretta, nel ruzzolone ho preso l’unica pianta che c’era all’intorno in pieno, senza però scivolare sotto, nel precipizio. Risultato? Solo molte contusioni ma la moto delle scorribande, ridotta a un rottame;  
4. due anni dopo, al mare con i miei fratelli sono salito su un gommone, un po’ più lontano vedevo la gente che aveva l’acqua al petto, così mi sono tuffato credendo che fosse profondo (i bagnanti, invece, si erano accovacciati perché sentivano freddo, falsando –per me– la profondità): a momenti mi rompevo il collo perché il fondo era bassissimo ma a parte la mancanza di respiro, nulla più;
5. a trentaquattro stavo andando in fretta e furia in Sicilia per prendere un ragazzo, Pietro, e portarlo in seminario (è diventato poi sacerdote) quando, sull’autostrada della Calabria verso le sei del mattino dopo un cavalcavia, la mia auto cominciò a sbandare, nonostante cercassi di tener fermo il volante. Ho pensato che la mia vita finiva lì, subito ho avvertito come se l’auto fosse presa dietro da qualcuno e si raddrizzasse sulla strada. Tutto è avvenuto in pochi secondi, senza neanche il tempo di rallentare, ma il ricordo è sempre stato vivo in questi anni.
Ebbene, in tutti questi episodi, il Signore mi ha salvato per cui la mia vita non mi appartiene più, e questo da tempo.
Com’è successo a me probabilmente è accaduto anche a te che stai leggendo.
La suocera di Pietro, una volta guarita, si è messa a servire il Signore forse noi dobbiamo fare lo stesso, prima, però dobbiamo riconoscere che la nostra vita appartiene solo a Dio perché Lui ci ha salvati!
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Responsabile don Fabrizio Maniezzo

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